Oggi è il compleanno di Nabil, ma io sono troppo distante per portargli un regalo.
Allora vado in cucina, metto nello stereo il cd “Cafè Jerusalem” dei Radiodervish e cerco ispirazione nelle sue canzoni per festeggiarlo.
Il cardamomo è al centro di questa mattina di inizio gennaio.
Abbiamo sorriso insieme, io e Nabil, sui poteri di magiche pozioni di cardamomo per scacciare la paura. E, in effetti, pare proprio che il cardamomo abbia proprietà afrodisiache e curative contro il veleno di alcuni serpenti. Chissà!
Cardamom is a magic potion, si ripete nella canzone “Cardamom“ in cui Nabil canta e chiede a cup of coffee sada.
Il caffè arabo può essere sada (come spesso si usa) ovvero senza zucchero; wasat, leggermente dolce; oppure hilweh, terribilmente dolce.
Un mese fa, io e Nabil, abbiamo passato meravigliosi giorni insieme in occasione del Trans Mediterranea Festival di cui lui è il direttore artistico e a cui io ho partecipato per parlare del mio libro e tenuto un corso di cucina dove ho insegnato a preparato le buonissime prelibatezze della gastronomia palestinese.
Oggi, che è il compleanno di Nabil, inizio la giornata aprendo il vasetto dei semi di cardamomo. Quello che ho macinato la scorsa settimana profuma ancora.
Per casa continua a suonare “Cafè Jerusalem“.
La musica dei Radiodervish mi accompagna da tanti anni.
E’ il suono del disordine per casa mentre preparo la valigia. Con questi musicisti sublimi condivido l’amore per Gerusalemme, i suoi caffè e le “nuvole dolci di cardamomo“.
Nei loro cd ritrovo sempre qualche riferimento a questa scura bevanda, ma come dargli torto?
Viaggiando in Palestina il caffè è sempre presente, è un rito che va rispettato, è una forma di comunicazione.
Ti viene offerto un caffè se fai visita a qualcuno, ma anche se sei per strada, se ti fermi in un negozio, se sei chiuso in taxi da ore per un’interminabile fila che si è creata a causa di una strada chiusa all’improvviso dall’esercito israeliano o se vaghi in attesa che apra il check point vicino a quella specie di rotonda somigliante a un labirinto senza via d’uscita che blocca le strade difronte al muro di Qalandia, in quel mercato improvvisato di venditori di frutta secca e caffè. Quel caffè che aiuta coloro che tutti i giorni devono rimanere pazienti a far passare il tempo dell’attesa per “andare di là”. Il caffè in Palestina ti fa passare il tempo, ti da una mano a distrarre la mente da tutto quello che ti offre il presente, a trovare la pace dentro al profumo del cardamomo.
Nelle musiche dei Radiodervish ritrovo il senso di una perdita e di nuovi incontri. Talvolta un dolore, ma sempre accompagnato da un seme di speranza.
E’ l’emozione dello stare al mondo senza corazza, bensì pronti ad assorbire il bello e il brutto della vita.
Ho molti cd dei Radiodervish (quasi tutti!), ma quelli che continuo ad ascoltare sempre con lo stesso entusiasmo del primo ascolto rimangono “Cafè Jerusalem” e “Stay Human“.
“Stay Human” è un continuo pianto ed una possibilità. Dentro quella musica, tutta l’utopia e la lotta di persone come Vittorio Arrigoni e Pippa Bacca che avevano messo anima e corpo a disposizione di una speranza. Un disco-cronaca di perdite, massacri e dolori di questi ultimi anni. Ma non la celebrazione della sconfitta bensì l’onore di chi ha lottato e creduto in quello che stava facendo.
Anche nell’ultimo album “Il sangre e il sal” di nuovo ritrovo il caffè nel brano”Time for a Coffee” e di nuovo, questa scura bevanda, diventa una pozione miracolosa: “Take your coffee time, everything will be all right“.
Come i Radiodervish celebrano il caffè nella musica, così Mahmud Darwish lo fa con la poesia.
da “Una Memoria per l’oblio” di Mahmud Darwish
“Una cucchiaiata di caffè esaltata dal cardamomo, un’unica cucchiaiata, getta l’ancora, maestosa, sull’incresparsi dell’acqua bollente. Tu mescola muovendo piano il cucchiaio, prima in tondo e poi dall’alto verso il basso. Aggiungi la seconda cucchiaiata, porta la polvere da su a giù e poi, con un movimento circolare, da sinistra a destra. Versa la terza cucchiaiata. Fra l’una e l’altra, ogni volta, allontana per un momento il recipiente dal fuoco, e subito dopo “carica” il caffè, ossia riempi il cucchiaio di polvere che va sciogliendosi, sollevalo bene in alto e rituffalo nell’acqua, più e più volte, fino a quando non riprende a bollire e forma una pellicola bionda che si addensa in superficie e quasi affonda. Non lasciare che vada a fondo. Spegni il fuoco e non badare ai missili. Porta il caffè nel tuo angustio corridoio. Versalo, teneramente, con eleganza, in una tazza bianca – quelle scure attentano alla libertà del caffè. Osserva le volute di vapore, il velo profumato che si leva. […]Conosco il mio caffè, il caffè di mia madre e il caffè dei miei amici. Li riconosco da lontano, so bene in cosa sono diversi. Non esistono due caffè che si somigliano. E il mio panegirico del caffè è anche un’apologia della diversità. Non c’è sapore che possa essere definito “di caffè”. Il caffè non è un concetto, non è un unico elemento, non è un assoluto. Ognuno ha il proprio caffè, talmente particolare, talmente specifico che io, dal sapore del caffè che mi offre, riesco a farmi un’idea di una persona, a stabilire il grado di eleganza interiore. […]Non esistono due caffè che si somigliano. Ogni casa ha il suo caffè, ogni mano il suo, perché nessuno somiglia davvero a qualcun altro. Io lo sento arrivare da lontano: inizialmente si muove in linea retta, poi serpeggia, si attorciglia e si contorce, si lamenta avvolgendosi a declivi e pendii, si aggrappa a querce e a pioppi, lotta per scendere a valle, si gira all’indietro, si strazia dal desiderio di risalire la montagna e poi, posato sulle note di un flauto, si dirige di nuovo verso la sua prima dimora.L’odore di caffè è un ritorno, un rientro nell’elemento primigenio, perché rimanda all’essenza del luogo d’origine; è un viaggio iniziato migliaia d’anni fa ed eternamente ripetuto. Il caffè è un luogo. Il caffè è una porosità da cui l’interno traspira all’esterno, è un’interruzione che unisce quel che solo l’odore di caffè può unire. Il caffè è l’antitesi dello svezzamento, è una mammella che nutre da lontano, un mattino che nasce da un sapore amaro, è il latte della virilità. Il caffè è geografia.”
Sono anni che circola in rete un’altro testo sul caffè che mi ha sempre affascinato. E’ scritto dalla giornalista Paola Caridi. In questi giorni l’ho disperatamente cercato sul suo blog www.invisiblearabs.com ed ho scoperto che la versione che conoscevo io era diventata parte del copione dello spettacolo teatrale “Caffè Jerusalem”. Per fortuna, la parte che ricercavo l’ho ritrovata quasi intatta, ed ancora mi emoziono nel leggerla, così come mi emozionano i movimenti e quello che avviene nelle cucine mentre si prepara da mangiare o il caffè!
Riporto qui di seguito il testo, anche per chi ha voglia di sapere come prepararsi un buon caffè arabo. La protagonista, Nura, è l’anziana proprietaria di un caffè nella Città Vecchia di Gerusalemme, che prepara il suo caffè con una miscela fatta da “mezzo classico, mezzo nero, una bella manciata di cardamomo“.
Metteva lo zucchero nell’acqua già bollente, e lo zucchero scompariva subito. E poi metteva la polvere di caffè, un bel cucchiaino per ciascuno. Due persone, due cucchiaini. Cinque cucchiaini per cinque persone. Sei per sei… e sempre un po’ di caffè anche per il bollitore.
“Non fare mai bollire il caffè, Nura! Stacca il bollitore dalla fiamma. Sollevalo! Così. E poi di nuovo giù.
(Nura imita le movenze della madre, porta in alto e di nuovo in basso il bollitore con gesti misurati e cadenzati)
Gira piano col cucchiaino la schiuma che fa il caffè, avanti, sotto, avanti, e poi di nuovo sotto.”
Una, due, tre volte. Il bollitore lontano dalla fiamma. Il cucchiaino fuori e dentro la schiuma.
E la schiuma così, come per incanto, si dirada, come il cerchio fatto da un sasso nello stagno.
Un cerchio nero che si allarga, una pupilla che si dilata.
E’ ipnotico, è come un sogno fare il caffè come lo facciamo noi palestinesi, a Gerusalemme. Perché noi pensiamo, quando prepariamo il caffè. Oppure, oppure non pensiamo a niente, mentre guardiamo il cerchio nero che si allarga, e precipitiamo lì dentro, dentro l’acqua, il caffè, lo zucchero.
Siamo in un tempo sospeso. Come il nostro tempo qui, a Gerusalemme.
Sul finire di questa mattina, per festeggiare il compleanno di Nabil, continuo ad ascoltare il cd “Cafè Jerusalem” e tiro fuori dal forno una teglia di rotondi biscottoni che riempiono la casa di un dolce profumo di cioccolato, caffè e cardamomo, proprio delle vere “nuvole dolci di cardamamo” come canta Nabil in “Jaffa Gate“.
C’è chi gira film da libri, chi suona canzoni da romanzi, chi scrive romanzi da viaggi…. io, stamani, sforno biscotti da canzoni!
180 gr di farina 00 qualche pizzico di sale tipo “Fleur de sel” o “sale della Camargue” Nella planetaria, oppure in una ciotola con la frusta, mescolare il burro ammorbidito insieme a zucchero, cardamomo, caffè e uova. Ottenuta una morbida crema unire, piano piano, la farina, il bicarbonato ed il sale. Alla fine incorporare le gocce di cioccolato. Coprire la ciotola con della pellicola e riporla nel surgelatore per 30 minuti. Respirare profondamente il profumo di questi biscotti prima di assaggiarli….ed esprimere un desiderio.Biscotti qahwa e nuvole dolci di cardamomo
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Ingredienti
100 gr di burro
100 gr di zucchero di canna integrale
40 gr di zucchero a velo
1 cucchiaio di caffè solubile
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaio di semi di cardamomo macinati
2 uova
80 gr di gocce di cioccolato
1/2 cucchiaino di bicarbonatoprocedimento
Sistemare la carta da forno su di una teglia e formare delle palline utilizzando un cucchiaio porzionatore di quelli che si usa per servire il gelato. Disporre le palline ben distanziate tra loro sulla teglia e poi schiacciarle premendo al centro il rovescio del cucchiaio da gelato oppure il polpastrello del dito indice. Tenere a portata di mano una ciotolina per bagnare il cucchiaio o il dito ed evitare, così, che l’impasto si appiccichi.
E’ importante disporre le palline distanti tra loro perché il cottura i biscotti si scioglieranno andando ad occupare più spazio nella teglia. Spolverare sui biscotti un pizzico di sale – io ho usato quello con la granella un po’ più grossa che si trova come “Fleur de sel” o “sale della Camargue” – e ne aggiungo un po’ anche quando li tolgo dal forno.
Cuocere a 180° per 20 minuti, non di più, anche se vi potrebbero sembrare morbidi, togliete i biscotti dal forno perché acquisteranno la giusta consistenza nel raffreddarsi.