Siamo all’inizio del mese di febbraio: le arance sono ancora dolci e succose, qualcuno comincia a pensare alla festa degli innamorati e in Sicilia le pasticcerie sono in fermento per la produzione delle minne, i dolci tipici della festa di Sant’Agata, patrona di Catania che si festeggia il 4 febbraio, dalla forma a coppetta, volutamente a ricordare un bianco seno, ricoperti di glassa bianca ed una ciliegia candita e ripieni di ricotta.
Il pensiero va al mio ultimo viaggio in Sicilia dove un’amica mi aveva invitata per preparare una cena a base di ricette palestinesi affiancate da ricette tipicamente siciliane che contenessero lo stesso ingrediente di base: ad esempio io ho preparato l’hummus e le signore siciliane le panelle, una sfida all’ultimo cece!
Questa meravigliosa cena si è tenuta a Sambuca di Sicilia, piccolo paese famoso per il laboratorio della pasticceria Pendola in cui si producono le più buone “minne di virgine” di tutta la Sicilia (ho visto con i miei occhi enormi pullman scaricare turisti bramosi di addentare una minna!). Questi dolcetti, sempre a forma di seno, non vanno confusi con quelli che si producono a Catania in occasione delle celebrazioni per Sant’Agata.
Le minne di Sambuca, come quelle catanesi, sono fatte con della pasta tipo frolla, ma mentre le prime non sono ricoperte di glassa e al loro interno vi è la zuccata e una crema di latte, le seconde sono ricoperte dI glassa bianca e ripiene di ricotta, cioccolato e canditi.
Le minne del laboratorio Pendula di Sambuca, come tanti altri dolci siciliani, si dice siano nate all’interno delle mura di un convento, dalle sapienti mani e dalla fervida ed un po’ maliziosa fantasia di suore e monachelle.
Ricordandomi di Sambuca di Sicilia, ripenso a Gerusalemme con cui questo piccolo paese, fatte le dovute proporzioni, condivide una forte somiglianza per via della pietra chiara dei suoi edifici, delle architetture arabe che caratterizzano quello che si chiama il “quartiere saraceno”, eredità della dominazione araba e della sua luce del mattino, dorata, che arriva di lato, che tanto mi ricorda la mia prima passeggiata nella città vecchia per l’ingresso della Porta di Damasco in un’alba calda di molti anni fa.
Esistono molti legami tra la Sicilia e il mondo arabo.
La dominazione araba, iniziata a metà del nono secolo, ha lasciato la sua impronta oltre che nell’architettura e nella cultura anche nella cucina che si arricchirà, proprio in quel periodo, di prodotti quali pistacchi, mandorle e melanzane fino ad allora sconosciuti in Sicilia.
L’influenza araba la si trova anche nella lingua: ad esempio il pistacchio, si chiama, in dialetto siciliano “fastuca“, termine molto simile a quello arabo “fustuq” فستق oppure “arancina”, seppur in un arabo ormai poco utilizzato, pare tragga origine dalla parola araba “naranj” che significa “arancia amara”. Anche “marzapan” in arabo significa pasta di mandorle e il famoso “torrone di giuggiulena” fatto con i semi di sesamo rimanda a “julijulan” جلجلان , che vuole dire sesamo (anche se oggi il termine più utilizzato è “simsim”).
Addirittura si legge in un articolo del Prof. Luigi Lombardo (ricercatore storico-archivista ed etno-antropologo siciliano) che la frutta martorana “secondo la tradizione fu importata dai Crociati della Terrasanta e una donna palestinese la insegnò alle monache del convento della Martorana“.
Molti dolci si assomigliano sia nel gusto che negli ingredienti: ad esempio il buccellato siciliano (da non confondere con quello lucchese), un anello di pasta tipo frolla ripieno di frutta secca ricorda i ma’amoul e i ka’ak (biscottini arabi di semolino e frutta secca o datteri) e, oltretutto, per decorare il buccellato si utilizzano delle pinzette che sono praticamente uguali a quelle che si usano per decorare ma’amoul e ka’ak.
Il biancomangiare, un budino di latte di mandorle che somiglia tanto al budino arabo muhallabia preparato con il latte e aromatizzato ai fiori d’arancio o alla rosa.
E ancora la cuccia, un dolce a base di grano che ricorda molto quello che si prepara in Medio Oriente: l’ashura (o budino di Noè) di tradizione musulmana o il burbara (o budino di Santa Barbara) di tradizione cristiana. Il primo ricorda un evento occorso sull’arca di Noè quando, per salvarsi dalla fame tutti i naviganti dell’arca cucinarono gli ultimi piccoli chicchi di grano e varia semenza e frutta secca che era rimasta ed anche la fine della battaglia di Kerbala . Il secondo ricorda la storia della santa che riusci a sopravvivere nella sua fuga cibandosi di chicchi di grano.
In Sicilia, come in Medio Oriente, il grano cotto si ritrova nelle storie della tradizione che ricordano le carestie e come questo semplice alimento abbia salvato dalla fame.
Si narra che il 13 dicembre, per la festa di Santa Lucia, sia arrivata al porto di Siracusa una nave carica di frumento. Gli abitanti della città, ormai in preda alla fame da mesi di carestia, si avventarono sui sacchi e non persero tempo a macinare il grano per farne farina, ma lo misero subito a bollire, giusto il tempo per ammorbidirlo, insaporirlo e riempire così le pance vuote.
Le storie che raccontano tradizioni non possono essere verificate, ma la loro utilità è senza dubbio enorme visto come possono allargare le nostre mente e farci volare oltre muri e confini.
Dunque…. cos’altro posso fare se non celebrare l’amore per le cucine di cui sono follemente innamorata: quella araba e quella siciliana.
Da tutti questi viaggi del pensiero è nata Habibti Cake.
Habibi è una parola araba che si può tradurre con “il mio amore“.
Io ho utilizzato Habibti che si usa quando ci si rivolge ad una donna, per dedicare questo dolce a tutte le mie amiche (da Firenze, al Libano, alla Sicilia, alla Palestina e in ogni dove!) che riempiono la mia vita di una straordinaria ricchezza di conoscenza, affetto e ispirazioni.
Per preparare questa torta ho messo insieme la ricetta siciliana del pan d’arancio (postato qualche giorno fa su facebook dalla mia amica Valeria di Sambuca dopo che ne aveva appena sfornata una teglia), un plum cake che si prepara in inverno, durante il periodo delle arance, e che si caratterizza per utilizzare nell’impasto un’arancia intera frullata e la torta araba sfouf (che prepara spesso la mia amica libanese Sawsan) che è di colore giallo acceso per via della tanta curcuma e del semolino con cui si prepara.
Ho aggiunto anche i semi che mi ricordano il Medio Oriente: il cardamomo (non potrei vivere senza!), l’anice (ripreso dalla ricetta della torta Sfouf che si trova nel libro “Syria recipes from home”), la cannella (praticamente la moglie dell’arancia, inseparabili in cucina!) ed il carvi ( conosciuto grazie allo strepitoso chef libanese Kaml che durante un corso di cucina preparò un budino a base di carvi che si chiama “Meghli” e preparato con farina di riso, frutta secca, anice e che si prepara in occasione della nascita di un bambino).
Devo ringraziare la mia amica Maha (palestinese che vive a Livorno) per avermi aiutato con i termini arabi. Se non la conoscete andate a vedere quanto è brava ad insegnare questa incantevole lingua nel suo canale youtube LearnArabicwithMaha https://www.youtube.com/user/LearnArabicwithMaha
PER UNA TEGLIA DI CIRCA 20 CM DI DIAMETRO PER LO SCIROPPO DI ZUCCHERO PER LA GLASSA PER GUARNIRE Per prima cosa preparate l’ater ovvero lo sciroppo di zucchero facendo sobbollire acqua, zucchero e cardamomo per 5/10 minuti. Alla fine aggiungere il succo di arancia e limone, lasciar bollire altri 2 minuti e poi lasciar raffreddare.Ingredienti
130 g di mandorle pelate
100 g di semolino
300 g di farina di grano tenero 00
100 ml di yogurt naturale
5 uova
2 arancie grande biologica (con la buccia non trattata)
150 ml di olio di semi
100 g di zucchero
1 bustina di lievito per dolci
2 cucchiai di curcuma
3 cucchiai di semi di sesamo tostati
2 cucchiai di semi di cardamomo
1 cucchiaio di cannella
1 cucchiaio di semi di carvi
1 cucchiaio di semi di anice
150 ml di acqua
100 g di zucchero
10 semi di cardamomo
1/2 arancia spremuta
1/2 limone spremuto
40 g di succo di melagrana
qualche goccia di succo di limone
450 g di zucchero a velo
1 cucchiaio di yogurt greco
petali di rosa
fettine sottili di arance
pistacchi in granella e a fettine
semi di nigella
chicchi di melagranaprocedimento
Nel robot da cucina mettere l’arancia tagliata a pezzi e tutti i semi (così da macinarli) e frullare. Aggiungere poi l’olio, lo zucchero, le mandorle, la curcuma, lo yogurt e le uova. Versare il composto in una ciotola ed unire il semolino, la farina e il lievito. Mescolare bene il tutto e versarlo in uno stampo da forno. Cuocere per 45 minuti a 180 gradi.
Appena tolta la torta dal formo fare dei fori utilizzando uno spiedino di legno e versare sopra lo sciroppo di zucchero filtrato e freddo distribuendolo uniformemente su tutto il dolce. Aspettare almeno 2 ore prima di capovolgere la torta su di un piatto da portata. Preparare la glassa mescolando il succo di melagrana con lo zucchero e distribuirla sulla torta immediatamente altrimenti potrebbe seccarsi. Decorare a proprio gusto con pistacchio, semi di nigella e petali di rosa. Lasciar asciugare la glassa per un ora. Questo dolce è buonissimo anche il giorno dopo e a me piace conservarlo in frigo per gustarlo fresco con un cucchiaino di yogurt colato, un filino di miele e della scorza di arancia.