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Qualcosa su di me…

by wp_9154133

La prima cosa che voglio dire è che questa pelosetta che vedete al mio fianco si chiama Poppy Rose ed è lei la nota più bella e interessante di questa pagina!
E’ arrivata questo settembre dalla Calabria su uno di quei furgoni che ogni sabato trasportano, dal Sud al Nord italia, canini ululanti e speranzosi di trovare qualcuno con cui passare le loro giornate.
Alle quattro di mattina, all’uscita di Firenze Nord è arrivata Poppy Rose…. e tutto è cambiato!
Poppy Rose, che fino al suo arrivo a Firenze si chiamava Dollina, era una canina randagia, viveva in strada e aveva trovato rifugio nel cortile di un condominio. Non se la passava molto bene a giudicare dalla foto che le volontarie mi hanno mandato; piena di croste per via della rogna, spelacchiata e tremendamente magra. Ma il destino si può cambiare; da soli è dura, ma incontrando qualcuno e insieme a qualcuno le cose possono cambiare.
Le amiche ci dicono che è stata una canina fortunata ad incontrarci, io dico che la fortuna l’abbiamo avuta io e la mia compagna Alessandra a trovare Poppy!

Ero un po’ triste prima che Poppy arrivasse. Ho sempre avuto difficoltà nello “star qui“… ; da sempre mi fa compagnia un umore ballerino e di un sentimento di inadeguatezza di fronte alla forza e alla sicurezza (seppur talvolta paventata) del mondo e dei suoi abitanti.

Dunque, Poppy e la cucina sono le mie grandi passioni. Non so quando ho iniziato ad appassionarmi alla cucina. Ricordo che fin dall’adolescenza ero “quella che fa le torte“. Mi piaceva presentarmi con qualcosa in dono per gli altri; che si trattasse di una festicciola o di un viaggio in macchina mi piaceva stare insieme a persone che mangiavano qualcosa che avevo cucinato.  Soprattutto, ero famosa per le mie “torte mappazza“. Erano buonissime, questo me lo dicevano tutti, ma caratterizzate da una consistenza pesante ed umidiccia.

La leggerezza non è mai stata il mio forte, sia della cucina che dell’umore!

Con l’età si fa pace anche con questo e una volta raggiunta (almeno) un po’ di tranquillità con la propria pesantezza, ed in generale con chi si è, anche la cucina può sperare di cambiare e, nel mio caso, acquisire quella leggerezza che non mi ha mai contraddistinto.
Al tempo in cui preparavo le “torte mappazza” non era proprio una cosa figa saper cucinare e girare con i dolci in saccoccia.

Ho vissuto l’adolescenza negli anni ottanta quando eravamo ancora liberi dalla declinazione della cucina in competizione, apparenza, fretta e stress ed i vari Master Chef ancora dovevano essere concepiti.
Non sarebbero certamente mai state queste le cifre del mio far le torte ma di sicuro, fossi stata adolescente oggi, sarei stata considerata ben più cool, ganza, top, un’influencer!

Negli anni ottanta era un atto eroico, con i miei 16 anni, presentarsi alle feste con una torta in mano!
Apparivo assai demodè, sparuta,  un po’ ridicola, una vecchia zia e, addirittura, portatrice di un modello, quello della donna che cucina, da fare in mille pezzi e buttare dalla rupe!

Dalle “torte mappazza” sono passata alla lettura: libri sulla cucina di luoghi lontani, ricette strane, ingredienti sconosciuti e quella frase – scritta nella prefazione di “A tavola con il sultano” di Stéphane Yerasimos studiosa turca di urbanistica, geopolitica ed esperta di storia dell’Impero ottomano – in cui ho ritrovato palesato quello che avrei voluto fare, i miei desideri e il significato della cucina per me.

Può il cibo, e la cura della sua preparazione, contribuire alla scrittura di una Storia – diversa da quella fatta di contrapposizioni di blocchi, di schieramenti che delle religioni hanno fatto ideologie di lotta, che ai Popoli ha contrapposto gli Stati, che sulla logica del <confine>, dell’isolamento dell’uno dall’altro ha costruito un modello sociale di vita – basata sul rispetto, sulla ricchezza della diversità perché prevalga la logica della ragione dell’Armonia?
Le mie utopiche speranze trovano conforto raramente nelle cronache, nelle notizie. Ho rifugio nel mio mondo di cucine, domestiche e professionali, quelle che emanano caldi, profumati vapori portatori di sapienza culinaria, capacità di strutturata alimentazione quotidiana per famiglie e clienti, quelle della cura nella ricerca dell’ingrediente migliore, dalla spiccata freschezza, quelle senza tempo, dove il Tempo è ingrediente tra i più raffinati.

Da quella frase, desiderare di studiare la cultura gastronomica della Palestina il passo è stato breve! 🙂
Una Paese che ti sbatte in faccia la sua terra, umida e scura e ti si appiccica addosso. 
Quello che vedi, ascolti, senti viaggiando in Palestina diventa simbolo e metafora per tutte le ingiustizie, per tutte  le sofferenze e io, come molti, per coscienza e dovere morale ho accolto la responsabilità di dire qualcosa e raccontare la realtà.
Per la voglia di tornare in Palestina e volendo contribuire in maniera diversa a farla conoscere, mi sono inventata un progetto finalizzato alla realizzazione di un documentario sulla cucina palestinese.
Volevo anche raccontare di come vive il popolo palestinese al di la del conflitto (nei limiti del possibile poiché un’occupazione militare entra in casa, in camera, in bagno ed anche nella cucina).
Il titolo che avevo trovato per questa idea raccoglieva in se i miei desideri: una Palestina POP, popolare, a colori, con l’energia e la festosità che si vive e si comprende solo viaggiando in quella terra.

Da un desiderio e una visione di emozioni da tradurre in immagini e colori è nato il documentario ed il libro di cucina “Pop Palestine. Salam cuisine da Hebron a Jenin”.

Già prima di partire avevo chiaro come avrei voluto raccontare la Palestina: a colori, pop ovvero popolare e trasmettere tutte quelle energie e quella gioia che solo chi viaggia per la Palestina può aver provato.

Una Palestina che soffre e, forse proprio per questo, quando questo popolo ha occasioni per essere felice lo è più di altri.
Di questo volevo raccontare. Siamo partiti in 4 amici da Firenze (Armando il cuoco, Alessandra la fotografa/videomaker, Stefanino l’assaggiatore ed io) e in Palestina abbiamo conosciuto Fidaa che è oggi una cara amica.

Scrivere Pop Palestine è stato un lavoro durissimo, lunghissimo, che per tre anni ha animato ogni attimo di tempo libero dal lavoro. La passione è così, si impone, diventa una priorità e sacrifichi qualsiasi cosa in suo nome. Così è stato per me scrivere questo libro, cucinare i piatti per verificare le ricette e fare le fotografie (sono di Alessandra tutte le bellissime foto del libro ).
La cucina Pop andrà avanti, con nuovi progetti e la voglia di far conoscere altri popoli e culture, fondamentale strumento per sconfiggere questa dilagante paura che ci rende pietrificati, disumanizzati, cadaveri d’umanità.

Questo sito è per me un hobby e un divertimento, è la chiusura del cerchio, è il volersi ricomporre mettendo insieme le proprie identità.

Nasce anche dalla voglia di continuare a  studiare.
Dal desiderio di concedersi il tempo per leggere tutti quei libri di cucina che tengo in casa e di cui rimando la lettura. Ecco, ogni tanto dare una “struttura” alle cose aiuta. Forse così riuscirò ad organizzare la mia passione.

Per quanto riguarda te, te che ti sei preso la briga di leggere, alla fine quello che vorrei fare con questi post di ricette…. è ricaricare le mie e le tue batterie con l’energia delle cose che danno piacere al palato e che guardandole fanno fare un bel respiro come a dire “che belli questi colori, e così sarà la mia giornata: vivace, spensierata e sorridente.

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